Antonio Gnoli, “Cabibbo la scienza e il gatto” in «La Repubblica»,
23 ottobre 2008
Saggio –breve sull’articolo
di Antonio Gnoli.
1.
Scienza
e fede a confronto
L’intervista
fatta da Antonio Gnoli a Nicola Cabibbo offre importanti spunti di riflessione,
poiché in essa vengono affrontate diverse tematiche etiche, ciascuna di
rilevante importanza. Nicola Cabibbo, fisico teorico delle particelle
elementari, nonché scienziato tra i più rinomati del mondo per aver
identificato una famiglia di particelle ormai internazionalmente nota come
“angolo di Cabibbo”, attualmente ricopre l’incarico di Presidente della
Pontificia Accademia della Scienza: già nell’introduzione del suddetto articolo
si evince chiaramente che, a primo acchito, agli occhi di un profano un incarico
di natura religiosa come quello ricoperto, per l’appunto, da Cabibbo può
apparire decisamente bizzarro, poiché è luogo comune che «la Chiesa non ama
il pensiero scientifico, non ama le sue libertà, le sue incursioni dubitative
nel mondo spirituale». Ma allora che ruolo ricopre Cabibbo nella cittadella
del pensiero cattolico? E’ questo, dunque, il primo interrogativo di fondo che
Antonio Gnoli rivolge allo scienziato, il quale, senza alcuna riluttanza,
risponde enfatizzando il concetto secondo cui nella Pontificia Accademia
della Scienza non convivono soltanto cattolici, bensì anche laici come Rita
Levi Montalcini e persino musulmani: si tratta quindi di una comunità
eterogenea che racchiude in sé i più celebri esponenti della scienza moderna, a
prescindere che siano credenti o meno, ecco che cosa ci fa uno scienziato nel
bel mezzo dello Stato Vaticano. Eppure – sottolinea Gnoli – l’accademia rimane pur
sempre un’iniziativa ecclesiastica, quasi come se la Chiesa oggigiorno cercasse
in tutti i modi di attribuire alla scienza compiti che non le competono
minimamente, pertanto viene chiesto a Cabibbo: come si fa a conciliare due
visioni del mondo e della vita così profondamente diverse l’una dall’altra,
quali appunto il pensiero scientifico e quello teologico? E qui lo scienziato
enfatizza un aspetto pregnante del delicato rapporto fra scienza e Chiesa,
ossia il fatto che trattandosi per l’appunto di due visioni, come tali esse
sono collocate su piani differenti e, conseguentemente, il ruolo degli esponenti
dell’accademia consiste proprio nel «difendere la scienza anche dentro la
chiesa», compito, questo, estremamente utile e importante perché – come
sottolinea lo stesso Cabibbo – «avere una Chiesa che non capisce, che non si
tiene al corrente delle cose che accadono nel mondo scientifico» è una
Chiesa dalla “coscienza cieca”, tant’è vero che a proposito del divario tra
evoluzionisti e creazionisti emerge un Cabibbo fermamente convinto che esistono
scoperte scientifiche non ancora accettate dalla collettività, esattamente come
accadde ai tempi di Galileo, ma noi viviamo ormai agli albori di una modernità
in cui i dubbi e le perplessità sull’evoluzione non sono più tollerabili: a tal
proposito «lo stesso Giovanni Paolo II a suo tempo ne riconobbe la
fondatezza» e personalmente anch’io, come Gnoli, sono del parere che la teoria
evoluzionistica «non può essere in contrasto con la fede individuale»,
perché se «il mondo è stato creato, perché non dovrebbe essere stato creato
nel modo in cui lo vediamo funzionare?». Parole, queste, da vero credente,
parole di Nicola Cabibbo: ebbene sì, perché Cabibbo nella suddetta intervista
si definisce proprio un credente, ma non un credente comune, di certo non uno
di quelli che si lasciano totalmente accecare dalla fede tanto da escludere dalla
propria esistenza tutto ciò che allude alla dimensione del progresso, bensì un
credente in cui Dio penetra nella sua visione scientifica come cosa a sé stante
e, in quanto tale, da discernere dal proprio ruolo di scienziato; per Cabibbo
semplicemente Dio è una cosa e la scienza è un’altra, non si può fingere di non
accorgersi che la natura funziona sulla base di leggi che ne spiegano il
funzionamento, leggi che governano l’universo con una coerenza assoluta che
ormai è pura certezza scientifica. Allo stesso modo di Laplace, Cabibbo
sostiene non che Dio non esiste, bensì che «per fare scienza occorre operare
come se Dio non esistesse», dunque ammettere per fede l’esistenza di Dio e
fare una scoperta scientifica sono due cose ben distinte e separate.
2.
Mancato
Nobel per la fisica
Sin
dall’incipit dell’intervista si delinea una problematica piuttosto
delicata, poi ripresa e approfondita nelle righe conclusive: nonostante sia
celebre in tutto il mondo per aver identificato, in qualità di fisico teorico,
una famiglia di particelle ormai nota a livello internazionale come “angolo di
Cabibbo”, purtroppo lo scienziato non è stato insignito del Nobel per questa
sua sensazionale scoperta; al contrario, l’Accademia svedese ha ritenuto
opportuno premiare, al suo posto, due giapponesi, i quali in verità non hanno
fatto altro che portare avanti la ricerca originaria del nostro Cabibbo. Si
tratta, indubbiamente, di una decisione che ha suscitato enorme scalpore, una
decisione ritenuta nella nostra comunità scientifica una vera e propria
ingiustizia, se non addirittura un oltraggio alla meritocrazia: eppure Cabibbo
non ha voluto pronunciare una sola parola a riguardo di tutto ciò, preferendo
rimanere piuttosto in assoluto silenzio. Chiamiamolo stoicismo, chiamiamolo
buon gusto. Resta il fatto, però, che quando Antonio Gnoli domanda allo
scienziato che cosa si prova dinanzi ad una propria scoperta scientifica, è
proprio in quella risposta che spicca lo stato d’animo di Cabibbo: egli, senza
un minimo di esitazione, risponde «incredulità, paura di essersi sbagliato,
timore che qualcun altro abbia fatto la stessa scoperta e la pubblichi per
primo». Eh già, probabilmente è proprio l’aver avuto quel timore, l’aver
permesso che altri portassero avanti ciò su cui aveva investito tutte le sue
energie, a suscitare adesso il suo rigoroso silenzio; ma quando Gnoli gli fa
notare che secondo chi lo conosce egli sia rimasto molto amareggiato per
l’accaduto, in quel preciso istante Cabibbo non esita a puntualizzare che «questa
storia dell’amarezza è letteralmente inventata». Eppure resta sempre il
fatto che non ha avuto questo riconoscimento, così Gnoli ad un certo punto, in
conclusione dell’intervista, domanda se la causa di questo mancato
riconoscimento meritocratico non sia forse da ricercarsi nel dato di fatto che
il peso internazionale della ricerca scientifica italiana vada via via
scemando: ma Cabibbo replica affermando che in verità la ricerca scientifica
italiana è molto stimata nel mondo, anche se il futuro è incerto poiché la
riduzione dei fondi mette seriamente a repentaglio l’eventualità che, nelle
nuove generazioni, si formino giovani capaci di proseguire l’impresa
scientifica. Insomma, le ragioni dell’Accademia svedese oscure erano e oscure
continuano a rimanere, il movente non è da attribuirsi nemmeno al ruolo svolto
dalla ricerca italiana in campo internazionale, perché a detta di Cabibbo pare
che essa sia ben vista agli occhi degli scienziati di tutto il mondo! Ma ciò
che mi ha colpito particolarmente è l’atteggiamento sereno, quasi di
rassegnazione, con cui Cabibbo si pone dinanzi al problema, nel senso che anche
se una propria scoperta scientifica suscita incredulità, timore di aver
sbagliato e paura che altri abbiano fatto la medesima scoperta al punto tale da
pubblicarla per primi, egli con buon gusto e con vena stoica continua a
manifestare una serenità d’animo, una fierezza per i propri risultati
conseguiti nel campo della fisica teorica, che a mio parere non hanno
precedenti nella cultura antropologica scientifica! Perché, si sa, chi non
reagirebbe negativamente se ricevesse un simile torto dopo aver investito tante
energie a coronare una scoperta scientifica per la quale si sono impiegati anni
ed anni di duro lavoro e sacrificio? Ma Cabibbo tace, tace inizialmente e
continua a perdurare nel proprio silenzio fino al termine dell’intervista: ed
io dall’inizio alla fine della lettura mi chiedo insistentemente “perché”,
cerco di comprendere fino in fondo perché il nostro scienziato manifesta una
calma così inaudita, una serenità interiore così singolare per quello che gli è
successo... Ma, rileggendo ancora una volta l’articolo, i miei occhi si
soffermano con particolare attenzione su una frase, «alla fine di tutto
questo si prova un’emozione unica», e in quelle parole colgo la vera
essenza del suo silenzio e della sua tranquillità: essa risiede in un certo
grado di umiltà, sì, perché Cabibbo si rivela uno scienziato umile e modesto,
non uno di quelli tanto avidi di gloria e di successo per le proprie res
gestae, ma un uomo della scienza così fiero e consapevole di “aver saputo
fare scienza”, che adesso, a settantatré anni, poco gli importa se altri si
sono presi i suoi benemeriti, perché ciò che conta davvero, nella sua
esperienza di fisico teorico, è l’aver saputo dare un input rilevante al
progresso sugli studi delle particelle elementari. Sì, perché la fisica delle
particelle elementari è per Cabibbo così talmente affascinante che, dinanzi ai
suoi misteri, tutto passa in secondo piano: in primis la paura di
essersi sbagliati, in secondo luogo il timore che induce a fare a gara per chi
pubblica per primo una scoperta scientifica, in terzo luogo il Nobel ed ogni
sorta di riconoscimento ufficiale! L’importante è aver maturato la
consapevolezza di “aver saputo fare fisica” durante la propria esistenza: ed è
proprio per questo che alla fine non si può che provare un’emozione unica.
Quando Gnoli, a proposito di fisica delle particelle elementari, domanda «Si
può dire che un fisico delle particelle abbia la stessa ambizione di un
filosofo antico» di voler giungere alla spiegazione ultima ed elementare
del mondo? Cabibbo puntualizza il fatto che il fulcro di questa fisica
teorica, più che nella metafisica, va ricercato nell’atomismo democriteo, anche
se «la ricerca delle particelle resta qualcosa di più complicato»
perché, si sa, le particelle elementari mica sono una scoperta moderna: tutto
parte dall’atomismo greco, che pensava con l’atomo di poter spiegare tutto. Ma
l’atomo è composto da così tante altre cose che «siamo chini su un mondo
sempre più piccolo. Ogni volta che pensiamo di aver toccato il fondo […] ci
accorgiamo che qualcosa sfugge». Io credo che sia la complessità dei
misteri che avvolge il mondo delle particelle elementari ad occupare il fulcro
dei pensieri del nostro caro Cabibbo: la competitività con i suoi “colleghi”
e la sete di vanagloria passano in secondo piano perché ci sono cose che
nella vita di un fisico teorico, e di uno scienziato in generale, si avvalgono
di un valore molto più profondo, un valore che partorisce una sete del sapere
tale da indurre l’uomo di scienza a voler dare sempre di più, a voler scavare
sempre più a fondo nei misteri che costernano il mondo atomico, a tal punto da
accantonare con coscienza ed umiltà ogni forma di ingiustizia capace di
perturbare l’animo di uno scienziato, quale può essere per l’appunto il mancato
riconoscimento del Nobel.
3.
Il
carattere probabilistico della fisica quantistica: l’esempio del “Gatto di
Schroedinger”
La
mente di Cabibbo, dunque, è focalizzata su tematiche scientifiche estremamente
più complesse: egli vorrebbe tanto che la scienza non peccasse di
“incompletezza”, perché essa certamente non è aspirazione del progresso, ma
purtroppo la scienza «resta incompleta perché la natura è molto più
complicata di quanto riusciamo a immaginare e a sperimentare». Il pensiero
di Cabibbo è interamente imperniato sul carattere probabilistico della fisica
quantistica, la quale nulla ha a che vedere con la fisica classica o
meccanicistica, basti pensare che, nell’enfatizzare le differenze fondamentali
esistenti fra scienza classica e scienza moderna, lo scienziato afferma: «Non
siamo in grado di predire esattamente cosa avviene in un fenomeno quantistico,
possiamo solo dire qual è la probabilità che accada questo o quello. […]
Per lungo tempo gli scienziati sono restati affezionati all’idea di […]
un mondo pensato come un orologio. Poi hanno dovuto scoprire che non è così. La
quantistica è interessante anche perché è piena di misteri. Noi pensiamo che la
probabilità che un fenomeno si realizzi […] dipenda dal fatto che prenda
una strada piuttosto che un’altra. In realtà nel pluriuniverso le segue tutte e
due. La meccanica quantistica serve anche a comprendere l’esistenza di molti
universi e il fatto che noi percepiamo una sola delle due possibili storie». Allorchè
Gnoli sottolinea il carattere affascinante di tale discorso, egli non esita a
chiedere allo scienziato di riportare un qualche esempio pragmatico, che si
rifaccia alla realtà quotidiana: così, quando Gnoli afferma che, sebbene l’uomo
è in grado di percepire una sola direzione di questa straordinaria
“biforcazione esistenziale”, probabilmente, in circostanze diverse, avremmo
potuto percepire anche altre strade, Cabibbo, con l’acume di chi come lui è un
lettore appassionato di fantascienza, ci riporta l’esempio emblematico del
“Gatto di Schroedinger”: «Immaginiamo un gatto chiuso in una scatola
contenente una fiala di veleno. La provetta si apre solo se, in un certo
momento, un nucleo si disintegra. La meccanica quantistica ci dice che esiste
più di una diramazione della storia. In una la fiala si rompe il veleno si
sparge e il gatto muore. Nell’altra la fiala resta integra e il gatto vive». La
metafora che si cela dietro questo messaggio emblematico costituisce, a mio
avviso, il passo di più ardua comprensione dell’intero articolo: non nego,
infatti, che inizialmente ad una prima lettura non sono riuscita a cogliere l’essenza
delle parole di Cabibbo; a primo acchito sono rimasta molto scettica e
incredula perché, avendo sempre ragionato da comune mortale a “senso unico”,
non riuscivo a capire come fosse possibile ammettere l’esistenza di un
cosiddetto «pluriuniverso» in cui gli eventi, anziché scegliere se seguire una
strada piuttosto che un’altra, in realtà le percorrono entrambe, così come è
altrettanto difficile accettare il fatto che noi possiamo percepire, di uno
stesso evento, solo una delle due direzioni che percorre. Quando al liceo
studiavo filosofia, ma anche geografia astronomica, avevo già sentito parlare
di “molteplicità dei mondi”, avevo già ben impressa nella mente la concezione
secondo cui, con molta probabilità, la Terra potrebbe non essere l’unico
pianeta dell’universo su cui esiste la vita, così come avevo pure maturato la
consapevolezza che potrebbe esistere non un solo universo, non soltanto il
nostro universo, bensì molteplici e molteplici universi, ciascuno con una
propria storia, ciascuno con una propria successione autonoma degli eventi.
Però, per quanto mi sia sempre piaciuto approfondire aspetti misteriosi sulla
vita, non avevo mai preso in considerazione l’ipotesi che ogni evento potesse
essere caratterizzato da una certa bidimensionalità e che pertanto potesse
seguire, in un fatidico pluriuniverso, sia una strada che un’altra. Quello che
avvolge la fisica quantistica è un alone di mistero che ha conquistato in
toto l’attenzione del nostro Cabibbo: le sue meditazioni su un argomento
scientifico così complesso e delicato da comprendere, conferiscono alla parola mistero
un’accezione semantica ancora più impegnativa di quella che comunemente le si
attribuirebbe, tanto da far «pensare anche alla nascita della fede», –
come sottolinea, del resto, lo stesso Gnoli – ma dinanzi a questa osservazione
Cabibbo risponde sottolineando che è necessario tenere separati i misteri della
fede da quelli della meccanica quantistica: ebbene sì, perché, come tutti ormai
dovremmo aver appreso, secondo Cabibbo Dio è una cosa e la scienza è un’altra,
allo stesso modo in cui dovremmo pure prendere atto del fatto che «Dio non
entra nella scienza» sebbene l’etica ne sia coinvolta.
4.
Riflessioni
sul delicato rapporto fra scienza ed etica
Quando
Gnoli domanda allo scienziato di esprimere un’opinione personale sul delicato
rapporto che oggigiorno esiste fra scienza ed etica, Cabibbo non esita ad
enfatizzare quelli che egli ritiene i due aspetti classici: da una parte
l’etica della ricerca, un’etica della verità che, in quanto tale, è volta a non
mentire né tantomeno falsificare i risultati della scienza; d’altro canto un
aspetto più delicato che concerne il campo della medicina, dove «le cose
sono più complicate perché l’uso della sperimentazione sull’uomo» apre un
dibattito senza precedenti nella storia antropologica di tutti i tempi.
L’intervista si chiude con una riflessione su una delle tematiche più
ricorrenti nel pensiero bioetico odierno, ovvero l’eutanasia: a tal proposito
Cabibbo, dopo aver premesso di non essere esperto di simili problematiche,
confessa che l’eutanasia costituisce «un’ulteriore questione che ha poco a
che fare con la scienza», anche se non si può non tenere conto del fatto
che le nuove scoperte scientifico –tecnologiche innescano una serie di
problemi da non sottovalutare, né dal punto di vista medico –sanitario né
sotto il profilo più prettamente etico. Il semplice «respiratore artificiale»
– prosegue Cabibbo – «ha salvato tantissime vite e permesso operazioni
chirurgiche complesse. Ma ha anche creato fenomeni di coma esteso. Mi vengono
in mente gli episodi del senatore Andreatta e il caso della ragazza Eluana
Englaro». L’evoluzione delle conoscenze teoriche e delle possibilità
tecnologiche nel campo della scienza ha sollevato problemi che non hanno
precedenti nella storia dell’umanità. Sebbene la rivoluzione scientifico –tecnologica
dell’era moderna ha permesso all’uomo di modificare radicalmente la natura che
lo circonda, tuttavia non ci si deve meravigliare del fatto che essa porti con
sé grandi attese e timori, ed è verosimile che queste attese e questi timori si
incrementeranno ulteriormente quanto più tra l’opinione pubblica avanzerà la
percezione di quanto le nuove conoscenze scientifiche possono influire
negativamente sulla vita dell’uomo. Da parte di coloro che aderiscono ad una
visione religiosa della natura e dell’uomo, viene spesso rimproverato ai laici
di non avere principi morali che non siano una acritica adesione alla scienza e
ai suoi progressi: viene rimproverato loro di non avere altri principi al di
fuori dei fatti. La società nella quale viviamo è una società complessa, in cui
convivono visioni diverse dell’uomo e della morale: pertanto è impossibile pensare
che in un campo come quello della bioetica, che tocca le concezioni e i
sentimenti più profondi dell’uomo, possa esistere un canone morale a vocazione
universale. In altre parole, io ritengo che scienza ed etica debbano trovare un
punto d’incontro, o meglio stabilire un certo equilibrio, perché oggi più che
mai, parafrasando le parole che mi disse ai tempi del liceo il mio insegnate di
religione cattolica, sono fermamente convinta che «una Scienza senza Coscienza
è una Scienza impazzita, una Coscienza senza Scienza è una Coscienza cieca»,
laddove per “coscienza” intendo propriamente l’insieme dei valori etici che
debbano porsi a fondamento della rettitudine umana.
Selene Borrelli