JWG

Ein Lehrer, der das Gefühl an einer einzigen guten Tat, an einem einzigen guten Gedicht erwecken kann, leistet mehr als einer, der uns ganze Reihen untergeordneter Naturbildungen der Gestalt und dem Namen nach überliefert. J.W.G.

venerdì 28 dicembre 2012

Riflessioni sull'articolo di Antonio Gnoli, “Cabibbo la scienza e il gatto” in «La Repubblica», 23 ottobre 2008


Antonio Gnoli, “Cabibbo la scienza e il gatto” in «La Repubblica», 23 ottobre 2008


Saggio –breve sull’articolo di Antonio Gnoli.


1.                  Scienza e fede a confronto

L’intervista fatta da Antonio Gnoli a Nicola Cabibbo offre importanti spunti di riflessione, poiché in essa vengono affrontate diverse tematiche etiche, ciascuna di rilevante importanza. Nicola Cabibbo, fisico teorico delle particelle elementari, nonché scienziato tra i più rinomati del mondo per aver identificato una famiglia di particelle ormai internazionalmente nota come “angolo di Cabibbo”, attualmente ricopre l’incarico di Presidente della Pontificia Accademia della Scienza: già nell’introduzione del suddetto articolo si evince chiaramente che, a primo acchito, agli occhi di un profano un incarico di natura religiosa come quello ricoperto, per l’appunto, da Cabibbo può apparire decisamente bizzarro, poiché è luogo comune che «la Chiesa non ama il pensiero scientifico, non ama le sue libertà, le sue incursioni dubitative nel mondo spirituale». Ma allora che ruolo ricopre Cabibbo nella cittadella del pensiero cattolico? E’ questo, dunque, il primo interrogativo di fondo che Antonio Gnoli rivolge allo scienziato, il quale, senza alcuna riluttanza, risponde enfatizzando il concetto secondo cui nella Pontificia Accademia della Scienza non convivono soltanto cattolici, bensì anche laici come Rita Levi Montalcini e persino musulmani: si tratta quindi di una comunità eterogenea che racchiude in sé i più celebri esponenti della scienza moderna, a prescindere che siano credenti o meno, ecco che cosa ci fa uno scienziato nel bel mezzo dello Stato Vaticano. Eppure – sottolinea Gnoli – l’accademia rimane pur sempre un’iniziativa ecclesiastica, quasi come se la Chiesa oggigiorno cercasse in tutti i modi di attribuire alla scienza compiti che non le competono minimamente, pertanto viene chiesto a Cabibbo: come si fa a conciliare due visioni del mondo e della vita così profondamente diverse l’una dall’altra, quali appunto il pensiero scientifico e quello teologico? E qui lo scienziato enfatizza un aspetto pregnante del delicato rapporto fra scienza e Chiesa, ossia il fatto che trattandosi per l’appunto di due visioni, come tali esse sono collocate su piani differenti e, conseguentemente, il ruolo degli esponenti dell’accademia consiste proprio nel «difendere la scienza anche dentro la chiesa», compito, questo, estremamente utile e importante perché – come sottolinea lo stesso Cabibbo – «avere una Chiesa che non capisce, che non si tiene al corrente delle cose che accadono nel mondo scientifico» è una Chiesa dalla “coscienza cieca”, tant’è vero che a proposito del divario tra evoluzionisti e creazionisti emerge un Cabibbo fermamente convinto che esistono scoperte scientifiche non ancora accettate dalla collettività, esattamente come accadde ai tempi di Galileo, ma noi viviamo ormai agli albori di una modernità in cui i dubbi e le perplessità sull’evoluzione non sono più tollerabili: a tal proposito «lo stesso Giovanni Paolo II a suo tempo ne riconobbe la fondatezza» e personalmente anch’io, come Gnoli, sono del parere che la teoria evoluzionistica «non può essere in contrasto con la fede individuale», perché se «il mondo è stato creato, perché non dovrebbe essere stato creato nel modo in cui lo vediamo funzionare?». Parole, queste, da vero credente, parole di Nicola Cabibbo: ebbene sì, perché Cabibbo nella suddetta intervista si definisce proprio un credente, ma non un credente comune, di certo non uno di quelli che si lasciano totalmente accecare dalla fede tanto da escludere dalla propria esistenza tutto ciò che allude alla dimensione del progresso, bensì un credente in cui Dio penetra nella sua visione scientifica come cosa a sé stante e, in quanto tale, da discernere dal proprio ruolo di scienziato; per Cabibbo semplicemente Dio è una cosa e la scienza è un’altra, non si può fingere di non accorgersi che la natura funziona sulla base di leggi che ne spiegano il funzionamento, leggi che governano l’universo con una coerenza assoluta che ormai è pura certezza scientifica. Allo stesso modo di Laplace, Cabibbo sostiene non che Dio non esiste, bensì che «per fare scienza occorre operare come se Dio non esistesse», dunque ammettere per fede l’esistenza di Dio e fare una scoperta scientifica sono due cose ben distinte e separate.
2.      Mancato Nobel per la fisica
Sin dall’incipit dell’intervista si delinea una problematica piuttosto delicata, poi ripresa e approfondita nelle righe conclusive: nonostante sia celebre in tutto il mondo per aver identificato, in qualità di fisico teorico, una famiglia di particelle ormai nota a livello internazionale come “angolo di Cabibbo”, purtroppo lo scienziato non è stato insignito del Nobel per questa sua sensazionale scoperta; al contrario, l’Accademia svedese ha ritenuto opportuno premiare, al suo posto, due giapponesi, i quali in verità non hanno fatto altro che portare avanti la ricerca originaria del nostro Cabibbo. Si tratta, indubbiamente, di una decisione che ha suscitato enorme scalpore, una decisione ritenuta nella nostra comunità scientifica una vera e propria ingiustizia, se non addirittura un oltraggio alla meritocrazia: eppure Cabibbo non ha voluto pronunciare una sola parola a riguardo di tutto ciò, preferendo rimanere piuttosto in assoluto silenzio. Chiamiamolo stoicismo, chiamiamolo buon gusto. Resta il fatto, però, che quando Antonio Gnoli domanda allo scienziato che cosa si prova dinanzi ad una propria scoperta scientifica, è proprio in quella risposta che spicca lo stato d’animo di Cabibbo: egli, senza un minimo di esitazione, risponde «incredulità, paura di essersi sbagliato, timore che qualcun altro abbia fatto la stessa scoperta e la pubblichi per primo». Eh già, probabilmente è proprio l’aver avuto quel timore, l’aver permesso che altri portassero avanti ciò su cui aveva investito tutte le sue energie, a suscitare adesso il suo rigoroso silenzio; ma quando Gnoli gli fa notare che secondo chi lo conosce egli sia rimasto molto amareggiato per l’accaduto, in quel preciso istante Cabibbo non esita a puntualizzare che «questa storia dell’amarezza è letteralmente inventata». Eppure resta sempre il fatto che non ha avuto questo riconoscimento, così Gnoli ad un certo punto, in conclusione dell’intervista, domanda se la causa di questo mancato riconoscimento meritocratico non sia forse da ricercarsi nel dato di fatto che il peso internazionale della ricerca scientifica italiana vada via via scemando: ma Cabibbo replica affermando che in verità la ricerca scientifica italiana è molto stimata nel mondo, anche se il futuro è incerto poiché la riduzione dei fondi mette seriamente a repentaglio l’eventualità che, nelle nuove generazioni, si formino giovani capaci di proseguire l’impresa scientifica. Insomma, le ragioni dell’Accademia svedese oscure erano e oscure continuano a rimanere, il movente non è da attribuirsi nemmeno al ruolo svolto dalla ricerca italiana in campo internazionale, perché a detta di Cabibbo pare che essa sia ben vista agli occhi degli scienziati di tutto il mondo! Ma ciò che mi ha colpito particolarmente è l’atteggiamento sereno, quasi di rassegnazione, con cui Cabibbo si pone dinanzi al problema, nel senso che anche se una propria scoperta scientifica suscita incredulità, timore di aver sbagliato e paura che altri abbiano fatto la medesima scoperta al punto tale da pubblicarla per primi, egli con buon gusto e con vena stoica continua a manifestare una serenità d’animo, una fierezza per i propri risultati conseguiti nel campo della fisica teorica, che a mio parere non hanno precedenti nella cultura antropologica scientifica! Perché, si sa, chi non reagirebbe negativamente se ricevesse un simile torto dopo aver investito tante energie a coronare una scoperta scientifica per la quale si sono impiegati anni ed anni di duro lavoro e sacrificio? Ma Cabibbo tace, tace inizialmente e continua a perdurare nel proprio silenzio fino al termine dell’intervista: ed io dall’inizio alla fine della lettura mi chiedo insistentemente “perché”, cerco di comprendere fino in fondo perché il nostro scienziato manifesta una calma così inaudita, una serenità interiore così singolare per quello che gli è successo... Ma, rileggendo ancora una volta l’articolo, i miei occhi si soffermano con particolare attenzione su una frase, «alla fine di tutto questo si prova un’emozione unica», e in quelle parole colgo la vera essenza del suo silenzio e della sua tranquillità: essa risiede in un certo grado di umiltà, sì, perché Cabibbo si rivela uno scienziato umile e modesto, non uno di quelli tanto avidi di gloria e di successo per le proprie res gestae, ma un uomo della scienza così fiero e consapevole di “aver saputo fare scienza”, che adesso, a settantatré anni, poco gli importa se altri si sono presi i suoi benemeriti, perché ciò che conta davvero, nella sua esperienza di fisico teorico, è l’aver saputo dare un input rilevante al progresso sugli studi delle particelle elementari. Sì, perché la fisica delle particelle elementari è per Cabibbo così talmente affascinante che, dinanzi ai suoi misteri, tutto passa in secondo piano: in primis la paura di essersi sbagliati, in secondo luogo il timore che induce a fare a gara per chi pubblica per primo una scoperta scientifica, in terzo luogo il Nobel ed ogni sorta di riconoscimento ufficiale! L’importante è aver maturato la consapevolezza di “aver saputo fare fisica” durante la propria esistenza: ed è proprio per questo che alla fine non si può che provare un’emozione unica. Quando Gnoli, a proposito di fisica delle particelle elementari, domanda «Si può dire che un fisico delle particelle abbia la stessa ambizione di un filosofo antico» di voler giungere alla spiegazione ultima ed elementare del mondo? Cabibbo puntualizza il fatto che il fulcro di questa fisica teorica, più che nella metafisica, va ricercato nell’atomismo democriteo, anche se «la ricerca delle particelle resta qualcosa di più complicato» perché, si sa, le particelle elementari mica sono una scoperta moderna: tutto parte dall’atomismo greco, che pensava con l’atomo di poter spiegare tutto. Ma l’atomo è composto da così tante altre cose che «siamo chini su un mondo sempre più piccolo. Ogni volta che pensiamo di aver toccato il fondo […] ci accorgiamo che qualcosa sfugge». Io credo che sia la complessità dei misteri che avvolge il mondo delle particelle elementari ad occupare il fulcro dei pensieri del nostro caro Cabibbo: la competitività con i suoi “colleghi” e la sete di vanagloria passano in secondo piano perché ci sono cose che nella vita di un fisico teorico, e di uno scienziato in generale, si avvalgono di un valore molto più profondo, un valore che partorisce una sete del sapere tale da indurre l’uomo di scienza a voler dare sempre di più, a voler scavare sempre più a fondo nei misteri che costernano il mondo atomico, a tal punto da accantonare con coscienza ed umiltà ogni forma di ingiustizia capace di perturbare l’animo di uno scienziato, quale può essere per l’appunto il mancato riconoscimento del Nobel.
3.      Il carattere probabilistico della fisica quantistica: l’esempio del “Gatto di Schroedinger”
La mente di Cabibbo, dunque, è focalizzata su tematiche scientifiche estremamente più complesse: egli vorrebbe tanto che la scienza non peccasse di “incompletezza”, perché essa certamente non è aspirazione del progresso, ma purtroppo la scienza «resta incompleta perché la natura è molto più complicata di quanto riusciamo a immaginare e a sperimentare». Il pensiero di Cabibbo è interamente imperniato sul carattere probabilistico della fisica quantistica, la quale nulla ha a che vedere con la fisica classica o meccanicistica, basti pensare che, nell’enfatizzare le differenze fondamentali esistenti fra scienza classica e scienza moderna, lo scienziato afferma: «Non siamo in grado di predire esattamente cosa avviene in un fenomeno quantistico, possiamo solo dire qual è la probabilità che accada questo o quello. […] Per lungo tempo gli scienziati sono restati affezionati all’idea di […] un mondo pensato come un orologio. Poi hanno dovuto scoprire che non è così. La quantistica è interessante anche perché è piena di misteri. Noi pensiamo che la probabilità che un fenomeno si realizzi […] dipenda dal fatto che prenda una strada piuttosto che un’altra. In realtà nel pluriuniverso le segue tutte e due. La meccanica quantistica serve anche a comprendere l’esistenza di molti universi e il fatto che noi percepiamo una sola delle due possibili storie». Allorchè Gnoli sottolinea il carattere affascinante di tale discorso, egli non esita a chiedere allo scienziato di riportare un qualche esempio pragmatico, che si rifaccia alla realtà quotidiana: così, quando Gnoli afferma che, sebbene l’uomo è in grado di percepire una sola direzione di questa straordinaria “biforcazione esistenziale”, probabilmente, in circostanze diverse, avremmo potuto percepire anche altre strade, Cabibbo, con l’acume di chi come lui è un lettore appassionato di fantascienza, ci riporta l’esempio emblematico del “Gatto di Schroedinger”: «Immaginiamo un gatto chiuso in una scatola contenente una fiala di veleno. La provetta si apre solo se, in un certo momento, un nucleo si disintegra. La meccanica quantistica ci dice che esiste più di una diramazione della storia. In una la fiala si rompe il veleno si sparge e il gatto muore. Nell’altra la fiala resta integra e il gatto vive». La metafora che si cela dietro questo messaggio emblematico costituisce, a mio avviso, il passo di più ardua comprensione dell’intero articolo: non nego, infatti, che inizialmente ad una prima lettura non sono riuscita a cogliere l’essenza delle parole di Cabibbo; a primo acchito sono rimasta molto scettica e incredula perché, avendo sempre ragionato da comune mortale a “senso unico”, non riuscivo a capire come fosse possibile ammettere l’esistenza di un cosiddetto «pluriuniverso» in cui gli eventi, anziché scegliere se seguire una strada piuttosto che un’altra, in realtà le percorrono entrambe, così come è altrettanto difficile accettare il fatto che noi possiamo percepire, di uno stesso evento, solo una delle due direzioni che percorre. Quando al liceo studiavo filosofia, ma anche geografia astronomica, avevo già sentito parlare di “molteplicità dei mondi”, avevo già ben impressa nella mente la concezione secondo cui, con molta probabilità, la Terra potrebbe non essere l’unico pianeta dell’universo su cui esiste la vita, così come avevo pure maturato la consapevolezza che potrebbe esistere non un solo universo, non soltanto il nostro universo, bensì molteplici e molteplici universi, ciascuno con una propria storia, ciascuno con una propria successione autonoma degli eventi. Però, per quanto mi sia sempre piaciuto approfondire aspetti misteriosi sulla vita, non avevo mai preso in considerazione l’ipotesi che ogni evento potesse essere caratterizzato da una certa bidimensionalità e che pertanto potesse seguire, in un fatidico pluriuniverso, sia una strada che un’altra. Quello che avvolge la fisica quantistica è un alone di mistero che ha conquistato in toto l’attenzione del nostro Cabibbo: le sue meditazioni su un argomento scientifico così complesso e delicato da comprendere, conferiscono alla parola mistero un’accezione semantica ancora più impegnativa di quella che comunemente le si attribuirebbe, tanto da far «pensare anche alla nascita della fede», – come sottolinea, del resto, lo stesso Gnoli – ma dinanzi a questa osservazione Cabibbo risponde sottolineando che è necessario tenere separati i misteri della fede da quelli della meccanica quantistica: ebbene sì, perché, come tutti ormai dovremmo aver appreso, secondo Cabibbo Dio è una cosa e la scienza è un’altra, allo stesso modo in cui dovremmo pure prendere atto del fatto che «Dio non entra nella scienza» sebbene l’etica ne sia coinvolta.
4.      Riflessioni sul delicato rapporto fra scienza ed etica
Quando Gnoli domanda allo scienziato di esprimere un’opinione personale sul delicato rapporto che oggigiorno esiste fra scienza ed etica, Cabibbo non esita ad enfatizzare quelli che egli ritiene i due aspetti classici: da una parte l’etica della ricerca, un’etica della verità che, in quanto tale, è volta a non mentire né tantomeno falsificare i risultati della scienza; d’altro canto un aspetto più delicato che concerne il campo della medicina, dove «le cose sono più complicate perché l’uso della sperimentazione sull’uomo» apre un dibattito senza precedenti nella storia antropologica di tutti i tempi. L’intervista si chiude con una riflessione su una delle tematiche più ricorrenti nel pensiero bioetico odierno, ovvero l’eutanasia: a tal proposito Cabibbo, dopo aver premesso di non essere esperto di simili problematiche, confessa che l’eutanasia costituisce «un’ulteriore questione che ha poco a che fare con la scienza», anche se non si può non tenere conto del fatto che le nuove scoperte scientifico –tecnologiche innescano una serie di problemi da non sottovalutare, né dal punto di vista medico –sanitario né sotto il profilo più prettamente etico. Il semplice «respiratore artificiale» – prosegue Cabibbo – «ha salvato tantissime vite e permesso operazioni chirurgiche complesse. Ma ha anche creato fenomeni di coma esteso. Mi vengono in mente gli episodi del senatore Andreatta e il caso della ragazza Eluana Englaro». L’evoluzione delle conoscenze teoriche e delle possibilità tecnologiche nel campo della scienza ha sollevato problemi che non hanno precedenti nella storia dell’umanità. Sebbene la rivoluzione scientifico –tecnologica dell’era moderna ha permesso all’uomo di modificare radicalmente la natura che lo circonda, tuttavia non ci si deve meravigliare del fatto che essa porti con sé grandi attese e timori, ed è verosimile che queste attese e questi timori si incrementeranno ulteriormente quanto più tra l’opinione pubblica avanzerà la percezione di quanto le nuove conoscenze scientifiche possono influire negativamente sulla vita dell’uomo. Da parte di coloro che aderiscono ad una visione religiosa della natura e dell’uomo, viene spesso rimproverato ai laici di non avere principi morali che non siano una acritica adesione alla scienza e ai suoi progressi: viene rimproverato loro di non avere altri principi al di fuori dei fatti. La società nella quale viviamo è una società complessa, in cui convivono visioni diverse dell’uomo e della morale: pertanto è impossibile pensare che in un campo come quello della bioetica, che tocca le concezioni e i sentimenti più profondi dell’uomo, possa esistere un canone morale a vocazione universale. In altre parole, io ritengo che scienza ed etica debbano trovare un punto d’incontro, o meglio stabilire un certo equilibrio, perché oggi più che mai, parafrasando le parole che mi disse ai tempi del liceo il mio insegnate di religione cattolica, sono fermamente convinta che «una Scienza senza Coscienza è una Scienza impazzita, una Coscienza senza Scienza è una Coscienza cieca», laddove per “coscienza” intendo propriamente l’insieme dei valori etici che debbano porsi a fondamento della rettitudine umana.

 Selene Borrelli 

 

 

2 commenti:

  1. Come lo stesso Cabibbo afferma:"la chiesa è fatta di persone,come è fatta di persone anche la scienza",quindi siamo dinanzi ad esseri umani,ognuno con una propria mente,coscienza ed esperienza.Vi è chi riscontra una coerenza nella scienza,e chi un credo nella religione.Ma voler per forza,far coincidere le due cose o portarle su piani paralleli è quasi una forzatura.La scienza nasce dalla curiosità,perciò ricerca,interesse,in essa non vi è un limite o un punto di arrivo,perché la complessità della natura e delle leggi che regolano il mondo è più grande dell'uomo;lo scienziato non si può accontentare,come a mio avviso accade nella religione.Nel caso di Cabibbo,siamo dinanzi ad un uomo con una "doppia fede",affermando che lo scienziato non vuole per forza mostrare che Dio non esiste.Penso che la scienza e la religione si annullino a vicenda,poiché entrambe hanno lo stesso principio,ma fondato su basi opposte.

    RispondiElimina
  2. Personalmente mi sento vicina alla linea sostenuta da Selene. Tanto la ricerca scientifica quanto un cammino di fede autentico e veritiero mirano e derivano a/da un'apertura nei confronti della realtà e di se stessi. L'uomo scopre di non riuscire ad accontentarsi di quanto lo circonda, e va alla ricerca inesorabile di cio' che possa colmare la voragine di compimento che strutturalmente si trova addosso. E' ontologicamente poco corretto associare la religione al dogmatismo ad oltranza. Tale visione riduttiva non regge infatti dinnanzi alla testimonianza di un'ampia parte di umanità cambiata dall'incontro religioso, cristiano se penso alla mia personale esperienza. La fede non rende piu' ottusi: anzi, partendo proprio da un utilizzo pieno della ragione, spinge ad avere coscienza della realtà secondo la totalità dei suoi fattori.

    RispondiElimina